Pesca in tana


Caratteristiche

La pesca in tana è sicuramente la tecnica più classica della pesca subacquea, ed anche la più praticata sia dai sub più esperti che dai principianti. In questi ultimi anni, questa tecnica costringe il sub a carnieri sempre più poveri, visto che la Cernia, la regina della tana, è sempre più rara ed è difficile trovare una tana abitata da una Cernia ad una profondità accessibile all’apneista medio. Comunque, anche se la Cernia rimane nei sogni proibiti del pescatore in tana, altre prede possono essere catturate con questa tecnica, quali: Saraghi, Corvine, Tordi, Gronghi, Murene, Scorfani ed altre prede minori. La pesca in tana richiede all’apneista sia una buona preparazione fisica che un’apnea al di sopra del minuto, altrimenti il continuo sali scendi per controllare la presenza di prede nelle tane più interessanti, finisce per stressare il fisico del sub, costringendolo ad accorciare la sua permanenza in acqua ed ad accontentarsi di un carniere deludente.

Attrezzatura
Particolarmente importante, per la pesca in tana, è l’attrezzatura che deve avere precise caratteristiche; la maschera, deve essere piccola con scarso volume interno e buona visibilità; le pinne devono essere sufficientemente rigide e potenti per consentire il massimo rendimento di spinta con il minimo dispendio di energia, in modo da far consumare meno ossigeno. La cintura di zavozza deve essere facilmente regolabile e deve avere uno sganciamento rapido veramente efficiente, in maniera da consentire in caso di emergenza un rapido ritorno in superficie. Il coltello deve essere robusto ed acuminato ma deve anche essere adatto per fare tutti quei mille lavoretti che la pesca in tana richiede, come dover scalzare massi che ostruiscono l’entrata, o dare la stilettata finale alla preda. Molti sub adottano due coltelli: uno tipo “Rambo” per i lavori più duri ed uno stiletto più piccolo, ma sempre ben affilato, per i casi di emergenza. Il fucile deve essere corto e potente, preferibilmente con potenza regolabile all’istante, con un semplice movimento del pollice. Sono consigliabili con questa tecnica i fucili oleopneumatici, dai 45 ai 75 centimetri. Potranno essere portati in acqua anche due fucili, uno più corto ed uno più lungo che potranno essere usati alternativamente a secondo della conformazione del fondale e quindi delle possibili prede che andremo ad incontrare. La freccia dove essere di buon diametro e di conseguenza di buon peso rispetto alla lunghezza. Il peso è importante, perchè, specialmente in un tiro ridotto, comporta una notevole massa d’urto, che si esplica in una migliore penetrazione nel corpo del pesce. Non solo, un’asta massiccia può resistere meglio a quell’azione di leva che molte volte è necessario compiere per far uscire una reticente murena dalla tana o una “piovra” ben arroccata! Per la pesca in tana, l’arpione é decisamente consigliabile, mentre non è molto adatta la fiocina, per la cattiva abitudine che ha di contorcersi alle inevitabili “padelle” che la fanno sbattere sulla roccia. L’arpione, infatti, permette di trapassare il pesce da parte a parte e ciò è importante al momento del recupero, quando bisogna tirare per far uscire la preda dalla tana. C’è poi da dire che con l’arpione è anche più probabile poter fare una “coppiola” di Saraghi o Corvine che passando e ripassando davanti alla punta del fucile, possono facilmente sovrapporsi e quindi essere trafitti entrambi. Usare la fiocina può essere utile quando siamo impegnati in una battuta di pesca su fondali modesti, dove sia il peso delle prede che la possibilità di dover fare qualche tiro in acqua libera può farci optare per la sua scelta. Altro attrezzo utile è la torcia che deve essere piccola e resistente, con un fascio di luce concentrato e luminoso, utilissimo per fare luce anche negli angoli più reconditi della tana che stiamo esplorando. Il raffio, un tempo utilissimo strumento per pescare la Cernia in tana è oramai in disuso, dato che è più facile un sei al superenalotto che trovare una cernia sopra la misura minima!

Azione di Pesca
La pesca in tana, come dei resto è intuibile, si fa esplorando metodicamente le tane del fondo, alla ricerca della preda. Comunque la prima fase della pesca in tana avviene proprio dalla superficie e il sub nuota molto piano, muovendo l’acqua in maniera quasi impercettibile e scruta il fondo sottostante minuziosamente, soffermando la sua attenzione sulle ombre, sui movimenti e su tutto ciò che, alterando il paesaggio, può indicare la presenza di una preda. L’occhio del sub non deve disperdersi in una visione generale, ma deve concentrarsi su una piccola porzione del fondale, abbandonandola solo quando si è sicuri che non ci sia niente di appetibile per prenderne in considerazione un’altra porzione di fondale che deve essere esaminata con la stessa perizia. Le grotte buone, cioè quelle abitate, sono ormai le meno evidenti, quelle più difficilmente individuabili dalla superficie. I sub sono ormai talmente tanti che una grotta facilmente avvistabile è meta continua di pellegrinaggi più o meno frettolosi, che alla lunga disturbano gli eventuali inquilini, consigliandoli a traslocare.
Una tana non va mai guardata di sfuggita, dopo esserci affacciati appena, ma va passata al microscopio con enorme attenzione. L’oscurità è una coltre nera che protegge il pesce, ma presto si dissolve, magari aiutandoci con una luce amica, perché dopo qualche istante l’occhio si abitua alla penombra e coglie particolari che altrimenti sarebbero passati inosservati. L’esplorazione di un antro subacqueo, grande o piccolo che sia, è, del resto, il risultato di una tecnica specifica. Bisogna procedere per gradi, innanzitutto la maschera si deve affacciare all’ingresso di una grotta assieme al fucile, in maniera tale da permettere di vedere all’interno e contemporaneamente di sparare se se ne presentasse l’occasione. La perlustrazione iniziale deve essere rapida, ma precisa: guardate anche di lato e in alto e nel fondo della tana per scorgere eventuali movimenti o profili strani che possano indicare la presenza di uno Scorfano o di altre prede che cercano di mimetizzarsi. Se la tana lo permette, cominciate ad avanzare, badando di tenere il bacino ben schiacciato contro il fondo. Se così non fosse, il sedere tenderebbe a galleggiare e romperebbe l’assetto, impedendovi i movimenti, e obbligandovi a sforzi notevoli per tornare in posizione, facendo diminuire il tempo dell’apnea e contribuendo ad intorbidire l’acqua ancora di più e a permettere a un’eventuale preda di guadagnare ripari più sicuri e più tranquilli.
Man mano che entrate, in presenza di tane abbastanza profonde, badate a non perdere il contatto con l’entrata; contatto che deve essere tenuto con le gambe e con i piedi: nel caso che doveste rinculare velocemente, trovereste in questo modo l’uscita senza dovervi neppure voltare. E se la grotta dovesse essere tanto ampia da costringervi ad abbandonare il contatto con l’ingresso, prima di entrare completamente assicuratevi che non ci siano altre aperture che, una volta dentro, possano trarvi in inganno. Controluce, tutte le fessure sembrano grandi abbastanza da lasciarvi passare, mentre non è così. Ad agire in maniera troppo tempestiva, potrebbe succedervi di trovarvi in gabbia. Riflettete sempre e non rischiate mai, non ne vale la pena. Sott’acqua, specialmente se si è chiusi tra quattro pareti di roccia, il panico può arrivarvi addosso d’improvviso, spingervi a gesti inconsulti, farvi consumare più ossigeno dei previsto e farvi fare la fine del topo. Non dimenticatelo. Se la caverna da esplorare è ampia ed ha altre aperture, oltre a quella a cui vi siete affacciati, occorre prendere adeguate precauzioni, non fidatevi del vostro senso di orientamento.
E quando dovete uscire, anche se lo spazio ve lo permette non giratevi, ma rinculate sempre strisciando, come siete entrati, e sempre badando e tenere il bacino incollato al fondo. Appena vi siete resi conto di essere tornati in acqua libera, non alzatevi come forsennati, ma agite ancora con calma prima di cominciare la risalita, quasi sempre, l’imboccatura di una tana è riparata da una tettoia di roccia che, se non vista, potrebbe farvi prendere terribili capocciate. Tanto più che l’istante che precede la risalita va sfruttato per dare un’occhiata panoramica sul fondo. E’ la posizione migliore per individuare altre tane interessanti che esplorerete durante le immersioni successive. Il fondale condiziona in maniera determinante la tecnica di pesca. Dal tipo di fondale che bisogna perlustrare si può intuire quali possono essere le prede che incontreremo. Una parete rocciosa che a grandi balzi precipita verso l’abisso ci può suggerire la presenza di Cernie, di Corvine, di grossi Saraghi, di Gronghi e di Motelle, per non parlare di Tordi, di Orate, di Dentici e di Murene. L’attenzione deve essere allora rivolta verso gli strati più bassi della scogliera e dato che ogni immersione è impegnativa, a causa della profondità degna di nota, non bisogna precipitarsi giù ogni volta che si vede l’ingresso di una caverna. Meglio tergiversare e osservare la scena dall’alto.
Ci immergeremo solo quando saremo convinti. Il ritmo delle immersioni sarà più rado, in maniera da permettere all’organismo di ripristinare i valori normali delle pressioni parziali dell’ossigeno e dell’anidride carbonica. Nelle puntate in profondità, il pallone può essere d’impaccio, perché rallenta la discesa, e il sagolone a cui esso è assicurato può impigliarsi nelle asperità della roccia. In questi casi, è meglio affidare la propria sicurezza al giubbotto autogonfiabile e ancorare il pallone al fondo, a una distanza non superiore ai cinquanta metri dal luogo dove si effettua l’immersione. Vista la celerità con cui chi guida le barche evita il pallone segna-sub è meglio accorciare questa distanza a non più di 20 metri per non correre il rischio di vedersi sfiorare da un’elica assassina. Se il fondale è roccioso ma degradante, con massi piccoli accavallati l’uno sull’altro la presenza di prede corpulente sarà meno probabile. I pesci che incontreremo saranno principalmente Saraghi, Salpe, Cefali, Orate, Spigole, Tordi, Triglie e solo negli strati più bassi Corvine e piccole Cernie. La relativa profondità del luogo permette immersioni più frequenti e più rapide. La visuale dall’alto sarà migliore, perché il fondo sarà più vicino alla superficie e ben illuminato. Inutile soffermarsi troppo e studiare le ombre, meglio nuotare velocemente in superficie ed esplorare le tane che mostrano segni di vita. Un anfratto da cui escono piccoli Saraghi può nascondere Saraghi più grandi e quindi merita una visita, un anfratto senza via vai di pescetti è poco probabile che sia abitato e di conseguenza può essere trascurato. Il tempo guadagnato può portarci in vista di una tana più sicura e ripagarci di un eventuale pesce non visto. Ognuno poi si regolerà conseguentemente alla propria esperienza e alle proprie aspirazioni. Il cacciatore esperto procederà spedito e sicuro di sé per fermarsi soltanto nei casi che riterrà necessari. Sarebbe, del resto, matematicamente impossibile esplorare tutti gli spechi e tutte le spaccature di una scogliera; perciò, tra le tante a disposizione, bisogna per forza fare una selezione e questa selezione dipende essenzialmente dall’istinto e dall’esperienza del cacciatore.
Un pesce in tana, dopo essere stato colpito dalla freccia, oppone una resistenza che non è solo frutto della sua forza, ma anche il risultato di varie componenti che dipendono essenzialmente dal fatto di essere in un luogo chiuso. La tana non è soltanto un riparo alla vista dei cacciatore, ma una vera e propria roccaforte, una trincea inespugnabile, l’estremo baluardo della salvezza. Quando la freccia morde le carni del pesce, martoriandolo, finisce l’effetto riparo della tana e comincia l’effetto difesa. Alla preda arpionata non importa più di nascondersi alla vista del suo carnefice, ma le importa di resistere il più possibile, sfruttando la sua conoscenza del luogo e di conseguenza il maggior numero di appigli che si trova intorno. Ecco quindi che il pesce cerca di sfruttare gli attriti, si gonfia spalancando gli opercoli branchiali, rizza le spine delle pinne dorsali e ventrali, in modo da incastrarsi nella roccia che lo protegge. Nei casi più macroscopici, il pesce sembra fondersi con i sassi che gli stanno vicino e la resistenza alla trazione dei cacciatori è tale che sembra di dover spostare l’intera montagna! Può accadere d’essere impotenti davanti ad una simile granitica reazione. Se la preda è di piccola dimensione ed ha poco peso corporeo può bastare un abile maneggio dell’asta, quel tanto che basta per guidare il malcapitato in una zona più ampia della grotta per fargli perdere la presa. Ma se il pesce è grosso, occorre impegnarsi in una vera e propria opera di demolizione. Tutti i colpi sono permessi. Ed è allora che il sub si tramuta di volta in volta in muratore, scavatore, minatore, ecc., lasciando libero sfogo alla fantasia. Sovente occorre spostare un macigno, oppure bisogna scavare con il coltello sotto la pancia della preda per diminuire la pressione delle sue pinne dorsali contro la volta della caverna. In casi del genere può persino essere conveniente cercare un’altra strada nella roccia che porti al pesce ferito, in modo da disorientarlo e costringerlo alla resa. Prima di tirare come ossessi, però, assicuratevi sempre che la freccia abbia trapassato la preda e che non rischi di lacerare la carne. Nel dubbio conficcategli nel corpo un’altra asta, legatela saldamente al fondo e andate in barca ad aspettare, o, al peggio, tornate sul luogo il mattino dopo. Il pescione avrà lottato tutta la notte per liberarsi dal ferro e al vostro ritorno potreste trovarlo addirittura allo scoperto, davanti alla tana, pronto per farsi raccogliere negli spasimi dell’agonia. Se pescate in gruppo, l’azione ravvicinata di più persone può accelerare il recupero. Pensate che ogni volta che mollate la presa per tornare a galla a respirare il pesce ha a disposizione alcuni minuti di tregua per riposarsi ed eventualmente per riguadagnare la posizione perduta. E così il lavoro si allunga, diventa titanico, se non addirittura stressante. In due o in tre, i tempi cambiano, quando uno molla, interviene l’altro, poi l’altro ancora. E allora lo sforzo è continuo, il pesce non riesce più a riguadagnare le sue posizioni e centimetro dopo centimetro finirà con l’arrendersi.